mercoledì 16 dicembre 2009

Lettera d'addio

È triste pensare che, dopo tanti anni, tutto debba finire.
In questi momenti, quando ho capito che la nostra relazione non ha più un futuro, quando sarebbe più facile il distacco pensando ai problemi, alle liti, alle incomprensioni, mi tornano in mente solo gli istanti più belli trascorsi insieme.
Rammento quando tornavo a casa dal lavoro e tu eri lì, ad aspettarmi. Ricordo che mi stendevo sul letto, al tuo fianco, ed iniziavo a parlare. Tu mi lasciavi sfogare, ascoltavi in silenzio, senza mai interrompermi; non giudicavi, non davi consigli, ma la tua presenza era sufficiente a tranquillizzarmi. Sapere che c'eri mi dava la serenità necessaria per buttarmi alle spalle le tristezze della giornata.
E dopo quei momenti, spesso, facevamo l'amore. Dio, com'era appagante!
Ricordo che ti sussurravo all'orecchio tutto quello che avrei voluto farti; a volte esageravo, dicendoti cose da far impallidire Schicchi e Damiano. Sgranavi i tuoi grandi occhi azzurri e spalancavi la bocca in segno di stupore, ma non mi respingevi mai.
Stavamo a letto per ore ed ore, sembravi non stancarti mai; ma se la sera ero stanco, mai una volta mi forzasti.
Lo ammetto, nel nostro rapporto c'erano dei limiti insormontabili: non potevamo mai uscire insieme, non potevamo farci vedere insieme, la nostra era una relazione clandestina, ma all'interno di quelle quattro mura avevamo tutto quello che ci occorreva per essere felici: noi stessi.
Ma ora è cambiato tutto.
Non in te, in me.
Tu sei sempre lì, ad aspettarmi, e io non provo più lo stesso bruciante desiderio di rientrare in casa e perdermi nei tuoi occhi, che osservano stupiti e divertiti il mondo circostante.
Anche i tuoi silenzi, che ho sempre apprezzato, ora cominciano a starmi stretti.
E no, non credo tu possa fare nulla per cambiare questa situazione.
Quindi, questo è un addio. Ti prenderò per mano, aprirò la porta e, per la prima volta, usciremo di casa insieme.
Poi, rientrerò da solo.
Tu aspetterai nel bidone dei rifiuti.
E smettila di guardarmi con quella bocca spalancata, sapevi benissimo che questo momento sarebbe arrivato!


giovedì 10 dicembre 2009

Lettera ad un figlio

Caro Figlio,
ricordo come fosse ieri il momento in cui seppi del tuo imminente arrivo: porto ancora le cicatrici qui, dietro la nuca, quando svenni sul marciapiede. Non ho ricordi, invece, su quello del tuo concepimento, ma spero comunque di essere stato presente.
Ricordo perfettamente il giorno della tua nascita: il giorno più bello della mia vita, ancor più bello della prima Coppa Campioni, della vittoria dei Mondiali, del divorzio da tua madre.
Come potrei mai scordarmi delle 18 ore di sala travaglio? Ancor prima di nascere eri ben deciso ad addolorare tua madre e per questo ti stimo profondamente. Comunque ricordo quando sei uscito dalla sala operatoria: eri dentro l'incubatrice, con i piedi appoggiati sul vetro, le manine strette a pugno ai lati della bocca, spalancata in un pianto disperato. In quell'istante, al mondo ci fummo solo tu ed io.
Ti osservavo da dietro il vetro, mentre il medico e le ostetriche ti pesavano, ti misuravano, controllavano il tuo cuoricino (che batteva sicuramente più piano del mio). Mi sono girato e ho visto, al mio fianco, un altro padre. Dentro di me, ho riso di lui: aveva un sorriso ebete in fronte, un'espressione imbecille sul volto; ma condividevamo lo stesso momento, eravamo complici, quindi l'ho salutato e lui ha risposto al mio saluto; ho sorrise e lui mi ha sorriso; mi sono passato una mano tra i capelli (sì, Figlio, non ridere: li avevo ancora, all'epoca, sei tu che me li hai fatto cadere!) e pure lui si è passato una mano tra i capelli; ho fatto una smorfia e, quando lui ha risposto con la stessa identica smorfia, ho capito che quel padre col sorriso ebete e l'espressione imbecille era il mio riflesso nello specchio.

Ricordo quando hai mosso i tuoi primi passi. Ti sei staccato dal divano e sei rimasto un attimo in equilibrio precario, traballante sulle gambe incerte, fissandoti i piedi; poi ci hai guardato, tua madre e me, che ti osservavamo con amore, che ti incitavamo a continuare. Hai sorriso e hai mosso un passo. Poi un altro. Poi un altro ancora.
Hai allungato le braccina verso di noi e hai continuato a camminare.
Hai ignorato tua madre e hai continuato a camminare ("viene da me! viene da me!", ho pensato), ti stavi avvicinando a me, hai preso confidenza con i tuoi piedini, hai quasi iniziato a correre.
Ricordo la voce di tua madre: "Fermalo!", ma no, era il tuo momento, non potevo fermarti, ti ho guardato procedere in questa tua marcia trionfale. "Lascialo andare", ho detto.
Ed ero orgoglioso di te, che continuavi a correre verso di me; di te, che ad un certo punto hai deviato la tua corsa; di te, che sei planato con la fronte sullo spigolo della parete; di te, che hai concluso la tua prima camminata svenendo sul pavimento, col risultato che per i quattro mesi successivi hai ritenuto opportuno continuare a gattonare.

E ricordo quando ti ho portato alla stazione ferroviaria, a veder passare il treno, a fare ciao con la manina alle carrozze e a vedere la fontana piena di pesciolini rossi.
Ti ricordi come ti piacevano?
Ti ricordi come ti incuriosivano?
Ti ricordi come sei caduto di testa dentro la fontana?

Non potrei mai scordare di quando, per la prima volta, hai detto: Papà.
Io: Ha detto papà!
Moglie (Faina): Ha detto cacca.
Io: No, ha detto papà!
Faina: Ma no, non vedi com'è paonazzo? sta spingendo, ha detto cacca.
Io: Sei sicura? A me sembra abbia detto papà.
Faina: Come vuoi, però ha cagato. Vallo a cambiare.

Beh, sì, forse quella volta non avevi detto papà... però la parola che imparasti a dire dopo Mamma e dopo cacca, fu papà.
Io: Ha detto papà!
Faina: Ha detto pappa.
Io: Sono quasi sicuro abbia detto papà, sai?
Faina: Sta mangiando la mela grattugiata, ha detto pappa.
Io: Sicura? Perché sembrava proprio papà.
Faina: Come vuoi, però ha finito la mela. Fagli fare il ruttino.

E va bene, imparasti prima pappa. Però ricordo perfettamente la parola che dicesti dopo:
Io: Ha detto... papà?
Faina: Non mi pare.
Io: Cos'hai detto, Figlio? Tornalo a dire!
Figlio: Bumbo!
Io: Bumbo? Non c'è verso che possa significare papà, vero?
Faina: No, credo voglia rivedere Dumbo.
Figlio: Bumbo! Bumbo! Bumbo!

Ok, lo ammetto, non ricordo quando imparasti a dire papà. Ricordo che imparasti prima Nonna, Nonno, Nonno vecchio, Chicca (il cane), Maurizio Costanzo e non so quante altre parole, però una volta mi avrai pur chiamato papà, sant'iddio!

Ed ora eccoti qui, ti osservo con un misto di orgoglio perché sei mio figlio, perché cazzo, grandi soddisfazioni non ce ne hai mai date, buon sangue non mente!
Comunque eccoti, tredici anni, quell'età in cui non hai ancora deciso se restare bambino ancora un po' o iniziare a diventare un uomo; eccoti, più alto di tua madre, schiavo degli ormoni, con solo l'autoerotismo come guida, buon sangue non mente!
Ed è solo ora, affanculo quel complessato di Edipo, che siamo soli, io e te, perché tua madre non ti capisce più, non ti riconosce più. Non ha idea di cosa ti possa passare per la testa, non sa quali cambiamenti stia subendo il tuo corpo, io lo so, ci sono passato e so benissimo che è una fase dove sei completamente solo, nessuno può aiutarti, ma io posso comprenderti, posso sostenerti, posso sopportare i tuoi continui cambi di umore, posso sorridere di nascosto mentre combatti contro un corpo che a volte ti è troppo stretto e a volte è già troppo adulto.
È adesso che posso capire il tuo desiderio di libertà, di scoprire il mondo, di vivere esperienze. Lo capisco e lo appoggio, anche se a parole dovrò condannarlo.
Ti insegnerò che in motorino non bisogna impennare, ma ti insegnerò anche che devi spostare il peso indietro e tenere sempre una mano sul freno posteriore, e cadrai e ti romperai un polso e io sarò preoccupato ogni volta che uscirai di casa, ma so benissimo che non si può tenere un figlio lontano dai pericoli.
E ti insegnerò che non bisogna MAI fare a pugni per risolvere una discussione; ma ti insegnerò anche che a certe scazzottate non puoi sottrarti e ti insegnerò dove colpire per fare più male possibile e chiudere in fretta la contesa.
Ti insegnerò che non bisogna bere, ma berrò con piacere un bicchiere di vino insieme a te. E se vomiterai tutta la notte, fingerò di credere che tu abbia preso freddo e ti si sia bloccata la digestione, dopo quella festa.
E ti insegnerò a tenerti lontano dalle droghe, ma ti insegnerò anche che se fumerai una canna la prima regola è "falla girare".
Appoggerò tua madre e le sue raccomandazioni quando uscirai con una ragazza, ma ti infilerò in tasca un preservativo - anzi, due - facciamo tre. (Basta, che il quarto serve a me)

E ti lascerò cadere e ti spronerò a rialzarti, ma sarò pronto ad aiutarti, se ne avrai bisogno.
E accetterò che tu possa diventare grande da solo, con la tua testa, commettendo i tuoi errori.

Ecco, tutto questo lo posso accettare.
Ma, cazzo... Che Guevara come avatar di Messenger, quello no, non lo posso accettare!

lunedì 7 dicembre 2009

Charme

Non ho mai avuto molto successo con le ragazze, fin dall’età dell’adolescenza.
Sono sempre stato un buon ascoltatore, il che faceva di me un ottimo amico, quello al quale confidare magari tutti i segreti amorosi, ma di andare oltre, di fare il salto di qualità da “confidente” a “moroso”, non se ne parlava nemmeno.
Per una strana associazione di idee che si fanno intorno ai 13-14 anni, mi ero convinto che le ragazze metallare fossero più “facili”, quindi per un breve periodo di tempo mi ero pure dato al metal (senza capelli lunghissimi, look da tossico, borchie e menate varie). Bene, di adolescenti metallare non ne ho mai conosciuta una.
Quindi trascorsi la mia prima adolescenza da una parte ascoltando masochisticamente le pene amorose della ragazza di cui ero segretamente innamorato, dall’altra eccedendo in attività masturbativa al pensiero di Tinì Cansino, Sabrina Salerno e Samantha Fox – spesso con il supporto di Gin Fizz e (Dio abbia in gloria l’inventore di quel format) Colpo Grosso.
Di contro, l’aria da bravo ragazzo, la reputazione di bravo studente, l’educazione mi hanno sempre permesso di fare colpo sulle madri delle mie coetanee. Ma, all’epoca, non ero ancora un appassionato di MILF.
Con il passare degli anni, le cose non cambiarono granché: continuai ad essere un ottimo amico e confidente; Tinì Cansino, Sabrina Salerno e Samantha Fox furono sostituite da Selen, Jenna Jameson e Sylvia Saint; Gin Fizz e Colpo Grosso furono rimpiazzati da Le Ore e qualche videocassetta o dvd presi a noleggio.
Poi, inaspettatamente, quando ero a militare, le cose cambiarono leggermente.
Cioè, la masturbazione sui giornali porno erano ancora l’attività prevalente all’interno del plotone, ma da quel momento il salto di categoria “confidente” -> “potenziale fidanzato” non fu più così utopico. Il problema principale, quella volta, fu che l’amica era anche la fidanzata del mio migliore amico… ma questa è un’altra storia.
La storia si ripeté più volte: da confidente di una persona con un qualche legame (fidanzata, sposata, suora, poco importa) ad amante, ecco, questo mi veniva dannatamente bene.
Oddio, non vorrei dare un’impressione sbagliata: non che io abbia mai avuto molto successo con le ragazze! Per dire, quando ho provato ad andare a puttane, la ragazza ha simulato un tremendo mal di testa.
Comunque, il rapporto con ragazze già impegnate mi risultava molto più facile, non ho mai capito il perché.
In realtà, non ho mai capito il perché una ragazza, una donna, una vecchia, un essere dotato di colonna vertebrale e avente sesso femminile dovrebbe essere interessata a me! uhm… no, che cazzata, quello che non ho mai capito è il perché una ragazza, una donna ecc. dovrebbe essere NON interessata a me, ma si sa che l’uomo è un essere imperfetto e la donna un po’ di più (aspetto fisico escluso).
Comunque, a questo punto mi ero incuriosito. Allora ho provato a chiederlo ad un’amica.

Lei: Charme, caro.
Io: Eh?
Lei: Prendi qui, alla bocca dello stomaco.
Io: In che senso?
Lei: Nausea, caro.
Io: Sarà perché riesco a farle ridere?
Lei: No, devi cercare qualcosa che ti riesca anche da vestito.
Io: Allora non me lo so spiegare…
Lei: Sarà per le prestazioni sessuali?
Io: No, non credo proprio. Sai qual è la cosa più carina che mi è stato detto? “È stato simpatico”
Lei: Non ti stai sottovalutando? Pensaci bene.
Io: Beh, in effetti, una volta una mi ha detto: “È una cosa da rifare assolutamente, il più presto possibile!”
Lei: Ecco, vedi?
Io: “Con un altro”
Lei: Ah.
Io: Poi ci sarebbe quella volta… ma non mi piace ricordarla.
Lei: Dai, dimmi!
Io: Lei mi ha detto: “Sei stato bravissimo, dico sul serio!”
Lei: E tu?
Io: Ero molto imbarazzato, non ho potuto far altro che risponderle: “Grazie mamma”

sabato 5 dicembre 2009

Asian cuisine

Stasera mi è toccato andare a cena dai miei.
I due piatti di tortellini in brodo (comprati dalle suore, che mia madre non è capace di tirare la sfoglia - anzi, non è proprio capace di far da mangiare - comunque buonissimi) hanno fatto passare in secondo piano le solite lamentele di Madre sul dispiacere che le ho dato andandomene a vivere da solo.
Comunque, poiché alcuni amici, invitati dalla barista cinese, mi attendevano, sono dovuto andare anche all'inaugurazione di un ristorante & bar thai-cino-giapponese (ok, lo sapete tutti: sono tutti cinesi che si spacciano per giapponesi e per thailandesi) che, fortuna vuole, ha aperto a 50 metri da casa mia.
Quindi, non satollo della doppia razione di tortellini (e del palombo in umido che mi ero divorato di secondo), mi sono pappato un involtino primavera, un pezzo di salmone alla piastra, una mezza dozzina di maki e nigiri (due varietà di sushi), del vitello thailandese strapieno di curry e un paio di Asahi (birra giapponese).
Poi... l'orrore.
Il cameriere si è avvicinato al tavolo, ha parlato con la barista cinese ed è iniziata la fine del mondo.
Il karaoke cinese.
Davanti a video in grado di ridicolizzare i filmati degli anni '80 di Videomusic, la barista si è esibita cantando canzoni della Pausini cinese, della Vanoni cinese e, in uno strepitoso duetto con il cameriere, della coppia Mina-Celentano cinese. Dopo aver ammirato alcuni amici esibirsi in balletti, in canzoni dialettali modenesi e romanze popolari cinesi, ho deciso di dedicarmi ai superalcolici.
Purtroppo, di superalcolico cinese mi piace solo la grappa di rose. Che, logicamente, essendo l'unica cosa bevibile con discreto piacere in un ristorante cinese, era finita. Ho quindi ripiegato sulla grappa di riso - che è bevibile, nulla di più. Ma, essendo bevibile (e nulla più), quando ho tentato di fare il secondo giro era finita.
Allora ho ripiegato sulla grappa di prugna. Avete presente il Bisolvon Linctus? Uguale.
Infine ho optato per la grappa di ginseng. Che sa di ginseng. E ha lo stesso sapore del caffè al ginseng (che, pure lui, sa di ginseng). Nemmeno male, se il ginseng non sapesse straordinariamente di merda.
I più attenti di voi potrebbero chiedersi come faccio a sapere di che sapore sia la merda. Questa è un'altra storia...

giovedì 3 dicembre 2009

Il meccanico di biciclette

Ho già affrontato l'argomento "Meccanici", parecchio tempo fa. Poiché all'epoca non contemplavo alcun mezzo di locomozione che non utilizzasse un motore a combustione interna, non avevo considerato una categoria "di nicchia": il meccanico da bicicletta, quella persona cui piace sporcarsi di grasso e morcia che ha fatto del motto "vorrei mettere le mani in un motore ma non ci capisco nulla" il suo stile di vita.

L'officina del meccanico da bicicletta è, solitamente, un garage (a volte due) riadattato all'uso. Non so voi, ma nel mio garage, quando ci sono tre biciclette (una è mia, una della padrona di casa, l'altra non si sa di chi sia), già non si gira; nell'officina del meccanico di biciclette ce ne sono almeno una quarantina, molte appese al soffitto con ganci da macellaio, una di fianco all'altra, come metallici quarti di bue. Non solo: all'esterno dell'officina sono sempre parcheggiate un'altra ventina di biciclette, che alla sera, non si sa come, vengono immagazzinate nel locale già pieno.
La cosa curiosa è che la quasi totalità di quelle biciclette sono lì da sempre, rimarranno lì per sempre, nessuno passerà mai a ritirarle.
L'officina del meccanico è il cimitero delle biciclette.

Il meccanico da bicicletta ha una caratteristica che lo diversifica da tutti gli altri meccanici: l'orario di apertura.
Il meccanico da bicicletta apre "circa" all'ora indicata. Il che può essere sintetizzato con: quando cazzo gli pare.

Un altro aspetto che distingue il meccanico da bicicletta dagli altri meccanici è la fauna che bazzica la sua officina.
Vi si può trovare sempre, anche in assenza del meccanico, il fratello/amico/conoscente, quello che "non fa un chilo".

Il mio meccanico da bicicletta, ovviamente, non si differenzia dai suoi colleghi.
Spingo il velocipede fino alla sua officina: chiusa. Leggo la scritta sulla serranda: Apertura: Mattino ore 10 (circa), Pomeriggio ore 16 (circa). Guardo l'orologio: sono le 14:50.
Alle 16 esco dall'ufficio, spingo il velocipede fino alla sua officina: chiusa. Vorrei chiedere informazioni alla copisteria di fronte, ma un cartello vergato a caratteri cubitali con scrittura nervosa "A che ora apre il meccanico? Non lo so! Non chiedetemelo! Evitate battute." mi fa intendere sia meglio lasciar perdere.
Alle 17 torno dal meccanico, l'officina è aperta (me ne accorgo da lontano, vedendo accatastate contro il muro una ventina di biciclette che occupano abusivamente il marciapiede).
Guardo dentro la vetrina: in mezzo ad una cinquantina di biciclette il meccanico è intento a cambiare una camera d'aria. Seduto di fianco alla porta, col cappello in testa e un abito d'altri tempi, eccolo: l'amico che non fa un chilo.
Mi vede, mi fa segno di entrare (l'amico, il meccanico non mi degna di uno sguardo).
Spingo la porta, ma due biciclette mi impediscono il passaggio.
L'amico le sposta, entro, chiama il meccanico, mi chiede il problema, glielo faccio vedere, muovendo i pedali.
L'amico si mette le mani nei capelli: "Udìo, mo'c bròt lavòr!" (oddio, ma che brutto lavoro!)
Mi spiega che è una cosa seria (l'amico, il meccanico mi deve ancora rivolgere la parola), che non è un gioco da ragazzi e che - sì, lui ne ha viste di biciclette con questi problemi - è anche una cosa costosa.
È una bicicletta, cristo - penso - cosa mai può esserci di costoso in una bicicletta?!
Il meccanico solleva lo sguardo e mi dice:
"Domani a quest'ora".

Il giorno dopo mi reco, mezz'ora dopo l'ora stabilita, dal meccanico. La mia bicicletta è sotto i ferri: rovesciata su due supporti, vedo il meccanico che ci armeggia. L'amico osserva interessato.
"Al pol turnèr tra n'uràtta?" (può ritornare tra un'ora?), mi chiede (l'amico, il meccanico non mi rivolge la parola).
Torno dopo un'ora e mezzo, la mia bicicletta è pronta, il meccanico è intento a cambiare l'ennesima camera d'aria e l'amico è seduto al solito posto, di fianco alla porta, con il solito vestito d'altri tempi.
Mi spiega (l'amico, il meccanico mi deve ancora rivolgere la parola) che è stato un lavoraccio, che hanno dovuto cambiare un pezzo all'interno di un fantomatico blocco pedale, che hanno gonfiato le ruote, serrato i bulloni, montato un parafanghi sulla ruota anteriore (azzurro, la bicicletta è rossa) e che gli spiace se il conto è risultato un po' salato.
A questo punto il meccanico si avvicina con la ricevuta e mi dice: "Sono venti euro".

Mentre mi allontano, l'amico del meccanico esce dall'officina per salutarmi.
Con molto rispetto, perché è un uomo d'altri tempi.
E sa bene che il saluto è importante, che bisogna distinguere, che non si può salutare un uomo e una donna allo stesso modo, che se ad una donna - per rispetto - bisogna dare del lei, ad un uomo - per rispetto - bisogna dare del lui.
E mi allontano tenendomi stretto il mio rispettoso "Arrivederlo!"