giovedì 10 dicembre 2009

Lettera ad un figlio

Caro Figlio,
ricordo come fosse ieri il momento in cui seppi del tuo imminente arrivo: porto ancora le cicatrici qui, dietro la nuca, quando svenni sul marciapiede. Non ho ricordi, invece, su quello del tuo concepimento, ma spero comunque di essere stato presente.
Ricordo perfettamente il giorno della tua nascita: il giorno più bello della mia vita, ancor più bello della prima Coppa Campioni, della vittoria dei Mondiali, del divorzio da tua madre.
Come potrei mai scordarmi delle 18 ore di sala travaglio? Ancor prima di nascere eri ben deciso ad addolorare tua madre e per questo ti stimo profondamente. Comunque ricordo quando sei uscito dalla sala operatoria: eri dentro l'incubatrice, con i piedi appoggiati sul vetro, le manine strette a pugno ai lati della bocca, spalancata in un pianto disperato. In quell'istante, al mondo ci fummo solo tu ed io.
Ti osservavo da dietro il vetro, mentre il medico e le ostetriche ti pesavano, ti misuravano, controllavano il tuo cuoricino (che batteva sicuramente più piano del mio). Mi sono girato e ho visto, al mio fianco, un altro padre. Dentro di me, ho riso di lui: aveva un sorriso ebete in fronte, un'espressione imbecille sul volto; ma condividevamo lo stesso momento, eravamo complici, quindi l'ho salutato e lui ha risposto al mio saluto; ho sorrise e lui mi ha sorriso; mi sono passato una mano tra i capelli (sì, Figlio, non ridere: li avevo ancora, all'epoca, sei tu che me li hai fatto cadere!) e pure lui si è passato una mano tra i capelli; ho fatto una smorfia e, quando lui ha risposto con la stessa identica smorfia, ho capito che quel padre col sorriso ebete e l'espressione imbecille era il mio riflesso nello specchio.

Ricordo quando hai mosso i tuoi primi passi. Ti sei staccato dal divano e sei rimasto un attimo in equilibrio precario, traballante sulle gambe incerte, fissandoti i piedi; poi ci hai guardato, tua madre e me, che ti osservavamo con amore, che ti incitavamo a continuare. Hai sorriso e hai mosso un passo. Poi un altro. Poi un altro ancora.
Hai allungato le braccina verso di noi e hai continuato a camminare.
Hai ignorato tua madre e hai continuato a camminare ("viene da me! viene da me!", ho pensato), ti stavi avvicinando a me, hai preso confidenza con i tuoi piedini, hai quasi iniziato a correre.
Ricordo la voce di tua madre: "Fermalo!", ma no, era il tuo momento, non potevo fermarti, ti ho guardato procedere in questa tua marcia trionfale. "Lascialo andare", ho detto.
Ed ero orgoglioso di te, che continuavi a correre verso di me; di te, che ad un certo punto hai deviato la tua corsa; di te, che sei planato con la fronte sullo spigolo della parete; di te, che hai concluso la tua prima camminata svenendo sul pavimento, col risultato che per i quattro mesi successivi hai ritenuto opportuno continuare a gattonare.

E ricordo quando ti ho portato alla stazione ferroviaria, a veder passare il treno, a fare ciao con la manina alle carrozze e a vedere la fontana piena di pesciolini rossi.
Ti ricordi come ti piacevano?
Ti ricordi come ti incuriosivano?
Ti ricordi come sei caduto di testa dentro la fontana?

Non potrei mai scordare di quando, per la prima volta, hai detto: Papà.
Io: Ha detto papà!
Moglie (Faina): Ha detto cacca.
Io: No, ha detto papà!
Faina: Ma no, non vedi com'è paonazzo? sta spingendo, ha detto cacca.
Io: Sei sicura? A me sembra abbia detto papà.
Faina: Come vuoi, però ha cagato. Vallo a cambiare.

Beh, sì, forse quella volta non avevi detto papà... però la parola che imparasti a dire dopo Mamma e dopo cacca, fu papà.
Io: Ha detto papà!
Faina: Ha detto pappa.
Io: Sono quasi sicuro abbia detto papà, sai?
Faina: Sta mangiando la mela grattugiata, ha detto pappa.
Io: Sicura? Perché sembrava proprio papà.
Faina: Come vuoi, però ha finito la mela. Fagli fare il ruttino.

E va bene, imparasti prima pappa. Però ricordo perfettamente la parola che dicesti dopo:
Io: Ha detto... papà?
Faina: Non mi pare.
Io: Cos'hai detto, Figlio? Tornalo a dire!
Figlio: Bumbo!
Io: Bumbo? Non c'è verso che possa significare papà, vero?
Faina: No, credo voglia rivedere Dumbo.
Figlio: Bumbo! Bumbo! Bumbo!

Ok, lo ammetto, non ricordo quando imparasti a dire papà. Ricordo che imparasti prima Nonna, Nonno, Nonno vecchio, Chicca (il cane), Maurizio Costanzo e non so quante altre parole, però una volta mi avrai pur chiamato papà, sant'iddio!

Ed ora eccoti qui, ti osservo con un misto di orgoglio perché sei mio figlio, perché cazzo, grandi soddisfazioni non ce ne hai mai date, buon sangue non mente!
Comunque eccoti, tredici anni, quell'età in cui non hai ancora deciso se restare bambino ancora un po' o iniziare a diventare un uomo; eccoti, più alto di tua madre, schiavo degli ormoni, con solo l'autoerotismo come guida, buon sangue non mente!
Ed è solo ora, affanculo quel complessato di Edipo, che siamo soli, io e te, perché tua madre non ti capisce più, non ti riconosce più. Non ha idea di cosa ti possa passare per la testa, non sa quali cambiamenti stia subendo il tuo corpo, io lo so, ci sono passato e so benissimo che è una fase dove sei completamente solo, nessuno può aiutarti, ma io posso comprenderti, posso sostenerti, posso sopportare i tuoi continui cambi di umore, posso sorridere di nascosto mentre combatti contro un corpo che a volte ti è troppo stretto e a volte è già troppo adulto.
È adesso che posso capire il tuo desiderio di libertà, di scoprire il mondo, di vivere esperienze. Lo capisco e lo appoggio, anche se a parole dovrò condannarlo.
Ti insegnerò che in motorino non bisogna impennare, ma ti insegnerò anche che devi spostare il peso indietro e tenere sempre una mano sul freno posteriore, e cadrai e ti romperai un polso e io sarò preoccupato ogni volta che uscirai di casa, ma so benissimo che non si può tenere un figlio lontano dai pericoli.
E ti insegnerò che non bisogna MAI fare a pugni per risolvere una discussione; ma ti insegnerò anche che a certe scazzottate non puoi sottrarti e ti insegnerò dove colpire per fare più male possibile e chiudere in fretta la contesa.
Ti insegnerò che non bisogna bere, ma berrò con piacere un bicchiere di vino insieme a te. E se vomiterai tutta la notte, fingerò di credere che tu abbia preso freddo e ti si sia bloccata la digestione, dopo quella festa.
E ti insegnerò a tenerti lontano dalle droghe, ma ti insegnerò anche che se fumerai una canna la prima regola è "falla girare".
Appoggerò tua madre e le sue raccomandazioni quando uscirai con una ragazza, ma ti infilerò in tasca un preservativo - anzi, due - facciamo tre. (Basta, che il quarto serve a me)

E ti lascerò cadere e ti spronerò a rialzarti, ma sarò pronto ad aiutarti, se ne avrai bisogno.
E accetterò che tu possa diventare grande da solo, con la tua testa, commettendo i tuoi errori.

Ecco, tutto questo lo posso accettare.
Ma, cazzo... Che Guevara come avatar di Messenger, quello no, non lo posso accettare!

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